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“The Invocations”: la recensione del libro horror YA di Krystal Sutherland


the invocations recensione - Krystal Sutherland

Il sottotitolo della mia recensione di “The Invocations” sarà “ragazze che vendono l’anima al diavolo”. E che hanno una ragione dannatamente buona per farlo!

In questo nuovo libro di Krystal Sutherland – autrice della perla dark “Le Sorelle Hollow”, pubblicato in Italia da Rizzoli – tre giovani inglesi uniscono le forze per fermare uno dei più pericolosi predatori naturali che la storia delle donne abbia mai conosciuto: un uomo che crede di avere il diritto di rubare i loro poteri.

E le loro vite.


La trama

Inghilterra, al giorno d’oggi. Cinque donne sono morte. L’assassino non lascia traccia di impronte né DNA. La polizia è di fronte a un vicolo cieco.

La diciannovenne Jude Wolf, ricca come il peccato e affascinante quanto il diavolo, è stata maledetta. La sua anima immortale, adesso, è legata a un demone che la odia. Jude farebbe qualsiasi cosa per liberarsi di lui, per fermare il grottesco decadimento che sta consumando il suo corpo.

Ciò di cui Jude ha bisogno è una “cursewriter“, una strega in grado di scrivere le maledizioni – e ritiene che seguire la scia di donne morte, tutte sospettate di aver avuto a che fare con il mondo dell’occulto – possa rappresentare la sua migliore opportunità di trovarne una.

Anche Zara Jones sta tenendo d’occhio la catena di omicidi. Sua sorella maggiore, Savannah, è stata la prima vittima del serial killer. Zara, però, non sta covando vendetta: vuole semplicemente cercare un modo per riportare in vita Savannah.

Ciò di cui Zara ha bisogno è una maga, un’incantatrice, una necromante… A tutti gli effetti, ciò di cui ha bisogno è una strega in grado di scrivere le maledizioni.

Nell’appartamento della quinta vittima del killer, Zara e Jude si incontrano per caso. Lì, le due ragazze si imbattono in un indizio destinato a legare i loro sentieri: uno strano biglietto da visita, che porta inciso un singolo nome.

Emer Byrne. Cursewriter.


“The Invocations”: la recensione

Anche se potremmo definire il nuovo libro di Krystal Sutherland come un “character-driven”, dal momento che il focus della narrazione tende a concentrarsi sulle dinamiche fra le sue tre protagoniste e sul loro diverso modo di reagire al filo conduttore del trauma e dell’abuso, bisogna dire che “The Invocations” garantisce parecchia adrenalina, tanti brividi e qualche bel colpo di scena!

Durante il primo atto, l’autrice si prende il suo tempo per introdurre le eroine e assicurarsi che il pubblico arrivi a empatizzare con loro. Si rivela, senz’altro, una scelta vincente: dopotutto, Zara, Emer e Jude sono personaggi sfaccettati e complessi, in grado di far impallidire di vergogna il 90% delle anonime eroine da “romantasy” che, nel corso degli ultimi anni, hanno cominciato ad andare tanto per la maggiore.

Lo stile della Sutherland, in questa occasione, mi ha ricordato un po’ quello di Victoria Schwab in alcuni dei suoi romanzi per adulti (e chi mi conosce bene, sa che intendo questo paragone come un grandissimo complimento). L’atmosfera del romanzo, deliziosamente oscura, ammalia fin dalle primissime pagine e si sposa benissimo con le tematiche cupe e attuali della narrazione.

Una Donna Promettente incontra “Le Terrificanti Avventure di Sabrina”: non so se sia questo il modo perfetto per descrivere “The Invocations” (bisognerebbe, forse, aggiungere al mix anche “Ragazze Elettriche”)…

Eppure mi basta sapere che, in questo caso, l’irriverente Jude sarebbe al 100% d’accordo con me!


Tre streghe contro il patriarcato

Se c’è un fatto che l’uscita de “Le Sorelle Hollow”, bellissima e conturbante fiaba oscura, è riuscita a mettere in luce, è che il dark fantasy per ragazzi è un genere ancora troppo sottovalutato. Soprattutto qui da noi in Italia.

In “The Invocations”, Krystal Sutherland ci dimostra che la stessa cosa vale per l’horror in salsa YA.

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“Belladonna”: la recensione del libro di Adalyn Grace


belladonna recensione - adalyn grace

La recensione di “Belladonna” di Adalyn Grace renderà felici gli appassionati di narrativa gotico-fantastica a sfondo romantico.

Dopotutto, stiamo parlando di uno YA che, malgrado le invadenti parentesi “ormonali” e la sua imbarazzante eroina obnubilata dai desideri della carne, riesce a giocare (bene) con le regole del mistery e a tingere di pathos il suo nucleo tematico principale: l’inevitabile scontro fra natura (umana) e società.

La trama, certo, annaspa un po’ in alcuni punti. Ma la solida ambientazione e i personaggi secondari, con i loro drammi, le loro ossessioni e le loro intime vicissitudini, rendono la lettura coinvolgente e accattivante sotto più di un punto di vista.


La trama

Signa è l’unica erede di una considerevole fortuna. Poco tempo dopo la sua nascita, la sua famiglia è rimasta vittima di un avvelenamento inspiegabile: da quel momento, la piccola è stata sballottolata da un tutore legale all’altro, nell’attesa di diventare abbastanza grande da poter rivendicare il proprio patrimonio e vivere per conto suo.

Nessuno dei suoi guardiani – a parte la prima: la sua amorevole nonna – ha mai avuto a cuore gli interessi di Signa. Nessuno di loro è rimasto nei paraggi abbastanza a lungo da sviluppare un autentico legame con lei.

In effetti, le persone che hanno a che fare con Signa sembrano manifestare la disturbante inclinazione a crepare come mosche. Un fatto che turba profondamente la ragazza, e che fra l’altro ha incoraggiato la nascita di una serie di allarmanti pettegolezzi sul suo conto.

I suoi ultimi parenti rimasti, adesso, sono gli Hawthorne: un’eccentrica famiglia che vive nel maniero di Thorn Grove, una dimora grandiosa quanto tetra.

Il patriarca, Elijah, non riesce a riprendersi dalla morte della moglie. Ne piange la scomparsa dando party scandalosi e sfrenati, mentre il figlio Percy lotta per riprendere il controllo della reputazione di famiglia e la figlia, Blythe, si consuma in un letto al piano di sopra, preda di una misteriosa malattia.

Ma quando lo spirito irrequieto della loro madre confessa a Signa il suo segreto – la sua morte non è stata accidentale: si è trattato di omicidio! – Signa capisce che anche il resto della nuova, strana famiglia che le è toccata in sorte potrebbe essere in pericolo.

Per svelare l’arcano, Signa recluta quindi due aiutanti d’eccezione: il vivace e robusto Sylas, un garzone di stalla, e… il Tristo Mietitore in persona!

A poco a poco, infatti, Signa, scopre di condividere con Morte un legame singolare. Un potere sconosciuto le scorre nel sangue, qualcosa che la tiene avvinta al suo affascinante “stalker” sovrannaturale e che costringe i due a rientrare continuamente l’uno nell’orbita dell’altra.

Un’attrazione pericolosa e letale, che rischia di mandare all’aria quel futuro di cui Signa era sempre stata così sicura…


“Belladonna”: la recensione del libro di Adalyn Grace

Tanto per cominciare, ammetto che lo stile di Adalyn Grace mi ha piacevolmente colpito. L’autrice riesce a dosare magia e realismo, sense of wonder e soffocanti imposizioni sociali, praticamente alla perfezione. La sua padronanza delle principali tecniche di scrittura è ottima, e l’atmosfera di “Belladonna” risulta così viva e ammaliante, così ricca di sfumature e di dettagli, da insinuarsi praticamente sotto la tua pelle.

Sono abbastanza sicura che, da qui a qualche mese, quando i dettagli del plot avranno già cominciato a perdere di consistenza dentro la mia mente, i ricordi più vividi che riuscirò a conservare di “Belladonna” avranno a che fare con la festa ecclettica e multisensoriale di profumi, bagliori, suggestioni, fumi, spettri e scintilli che l’affascinante prosa dell’autrice riesce a evocare.

La scena più riuscita è indubbiamente quella, preparata con cura, del ballo con Morte in un landa al di fuori del tempo e dello spazio. È in quest’occasione che l’elemento fiabesco riesce a emergere in tutto il suo splendore, trasportando chi legge in un mondo archetipicamente “altro” e spingendolo disperatamente a desiderare, insieme a Signa, di potervi rimanere a tempo indeterminato.

Dell’intreccio del libro, di per sé, ho apprezzato soprattutto la quantità di false piste (nella migliore tradizione di Agatha Christie, ogni personaggio è un potenziale indiziato…), un paio di colpi di scena e la grande onestà del finale.

Devo dire che non nutro una grande passione nei confronti della personalità di Signa; in compenso, però, posso quantomeno affermare di aver condiviso i suoi obiettivi e gran parte delle sue scelte.

Un fatto che mi spinge a coltivare una certa curiosità nei confronti del resto della serie. E dico questo, nonostante il leggero senso di stizza provocato da un odioso cliffahanger finale…  un twist che mi è sembrato soltanto un tentativo un po’ rozzo e, tutto sommato, poco necessario, di imbeccare il lettore e “costringerlo” ad acquistare il volume due.

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“Pride and Prejudice and Pittsburgh”: la recensione del Regency romance di Rachael Lippincott


Pride and Prejudice and Pittsburgh recensione - rachael lippincott

Eccoci giunti alla recensione diPride and Prejudice and Pittsburgh”, romance saffico di Rachael Lippincott.

Un libro YA, ambientato in parte nell’Inghilterra della Reggenza, in parte negli USA dei giorni nostri, che ti farà sciogliere come zucchero. E desiderare disperatamente di poter viaggiare indietro (o avanti) nel tempo insieme alle sue protagoniste!


La trama

Audrey Cameron ha perso la sua scintilla. Dopo essere stata piantata in asso dal suo primo amore ed essere finita sulla lista d’attesa della scuola d’arte dei suoi sogni – il tutto, nel giro di una settimana – la povera ragazza non ha nessun intenzione di mettersi di nuovo in gioco. Da nessun punto di vista.

Un giorno, il signor Montgomery, noto brontolone locale ,entra nel negozio di quartiere gestito dalla sua famiglia, annunciando di poterla aiutare. Audrey non sa cosa aspettarsi. Di sicuro, non la possibilità di essere trasportata indietro nel tempo, per diventare l’eroina di un romanzo d’amore Regency!

Lucy Sinclair, dal canto suo, non potrebbe restare più sbalordita dal ritrovamento di una strana ragazza americana nel campo fuori dalla sua magione di famiglia. Una giovane vestita in modo assai singolare, peraltro, e dotata di maniere alquanto allarmanti.

Tuttavia, deve ammetterlo: l’incontro potrebbe trasformarsi esattamente nel tipo di distrazione di cui aveva bisogno… Soprattutto perché suo padre, un avido arrivista, ha intenzione di costringerla a sposare un uomo odioso e supponente, nei confronti del quale Lucy non prova il minimo interesse.

Non che Lucy si sia più stata interessata a nessuno, dopo la morte di sua madre. Sembra quasi che la donna abbia portato via con sé nella tomba la capacità di Lucy di affezionarsi, vivere e amare.

Mentre le due ragazze uniscono le forze per cercare di scoprire le cause di questo assurdo viaggio nel tempo e trovare un modo per rispedire Audrey a casa, le loro rispettive scintille tornano da loro… nel più imprevedibile dei modi.

Perché mentre entrambe cercano disperatamente di innamorarsi dei loro corteggiatori e di ottenere il lieto fine che tutti si aspettano da loro, Audrey e Lucy scoprono che non è necessario il minimo sforzo per innamorarsi… l’una dell’altra.

Ma può una storia d’amore inaspettata sopravvivere alle più impossibili delle circostanze?


“Pride and Prejudice and Pittsburgh”: la recensione

Il nuovo libro di Rachael Lippincott assomiglia un po’ a una romcom di Natale targata Hallmark Channel, riletta in chiave f/f e con qualche delicato tocco fantastico aggiunto nel mix. Gli ingredienti segreti? Uno stile vivace, una frizzante atmosfera pop e una sana dose di umorismo!

Onestamente, ho fatto un filo di fatica a entrare in sintonia con il personaggio/punto di vista di Audrey. Difficilmente mi è capitato di imbattermi in un’eroina più piagnucolosa di così, e i suoi atteggiamenti sembrano spesso guidati da quel pizzico di fastidiosa ottusità che, a volte, si fa davvero fatica a ignorare.

Lucy mi è piaciuta molto, ma molto di più. In parte, perché ho apprezzato ogni singolo istante della sua lotta per recuperare i vari tasselli perduti della sua identità (anzi, penso che avrei addirittura gradito un ulteriore approfondimento su questo argomento…). Dopotutto, so che cosa significa interpretare un ruolo per tenersi stretta l’approvazione degli altri, e ho trovato davvero lodevole il modo in cui l’autrice è riuscita a trattare il tema.

Ammirabile anche lo sforzo, da parte di Rachael Lippincott, di creare un solido cast di personaggi maschili di supporto. Non dico che il tentativo sia completamente riuscito (non mancano stereotipi e momenti di stasi), ma, in generale, i comprimari riescono a interagire in modo tale da tenere sempre in movimento la famosa “rotellina” del plot, strappando nel frattempo più di un sorriso spensierato al lettore.

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“The Dragons of Deepwood Fen”: la recensione del libro fantasy di Bradley P. Beaulieu


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Nel corso della recensione di “The Dragons of Deepwood Fen”, libro fantasy di Bradley P. Beaulieu, ci imbatteremo in un mucchio di intrighi, tanti draghi, innumerevoli PoV, e… persino qualche simpatico riferimento alla più recente trilogia di “Jurassic Park”!


La trama

Lorelei Aurelius è la più sveglia fra gli Inquisitori di Ancris. Quando una misteriosa soffiata la conduce ad assistere all’incontro clandestino fra alcuni esponenti della Chiesa e gli odiati Red Knives, una banda di ribelli/combattenti per l’indipendenza, la giovane scopre un complotto che minaccia non soltanto la sua patria, ma l’Impero nella sua interezza.

La sua pista la spinge a incrociare la strada di Rylan Holbrooke, un famigerato ladro camuffato da “addomesticatore” di draghi. Rylan, infatti, è giunto ad Ancris proprio per risolvere il mistero in cui si è imbattuta lei. Sapendo che l’incarcerazione di Rylan potrebbe aiutare i Red Knives a ottenere i loro loschi scopi, Lorelei prende una decisione pericolosa: gli offre la libertà.

Mentre l’Impero si lancia all’inseguimento, considerandoli due traditori, la coppia fugge dalla città e si reca nella massiccia foresta conosciuta con il nome di “The Holt”. Qui, però, Lorelei e Rylan scoprono qualcosa di terribile.

I Red Knives stanno preparando la resurrezione di una potente semidivinità, prigioniera in uno dei santuari più sacri di Ancris. E, per qualche insondabile ragione, la Chiesa sembra ansiosa di aiutarli a ottenere il loro obiettivo…


“The Dragons of Deepwood Fen”: la recensione

“The Dragons of Deepwood” è quel genere di romanzo fantasy, corposo e denso di sottotrame, che impiega un po’ a scaldare i motori. I primi cinque, dieci capitoli sono quelli che mettono maggiormente alla prova le capacità d’attenzione del lettore.

La frenetica successione di PoV (punti di vista) sembra la principale responsabile di questa “confusione”: in un mondo letterario nuovo di zecca, Bradley P. Beaulieu introduce semplicemente troppi personaggi, troppo velocemente.

Ciò potrebbe facilmente dimostrarsi un deterrente per il lettore dalle inclinazioni più “casual”. Inutile negare l’ovvio: soprattutto perché almeno la metà di queste voci narranti appartiene ai vari villain della storia, numerosi come mosche e altrettanto determinati a rendere impossibile la vita dei protagonisti.

Il problema principale? Tutti questi loschi figuri iniziano a cospirare e a tessere le loro trame prima ancora che il lettore capisca chi diamine siano gli eroi, o per quale ragione dovremmo curarci di loro.

Superato lo scoglio delle cento pagine, le cose iniziano a farsi interessanti. A poco a poco, infatti, l’intreccio si dipana e l’ambientazione prende ad assumere una forma più intrigante. Il conflitto principale ricorda, alla lontana, quello avvenuto fra l’impero romano e i popoli celtici; mentre, a livello di trama e di respiro, ” The Dragons of Deepwood Fen” fa pensare a una sorta di “A Game of Thrones” epurato della maggior parte delle sue complessità psicologiche.

Con l’aggiunta, in compenso, di parecchie scene d’azione e combattimento. Spiccano, ovviamente, quelle dedicate alle battaglie fra i draghi: sicuramente il “piatto forte” della narrazione, insieme alle originali sfumature noir che arricchiscono l’atmosfera…

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“Insonnia” di Sarah Pinborough: la recensione


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Proseguiamo con la recensione di “Insonnia” di Sarah Pinborough. Una lettura piacevole, incalzante, avvincente… che regala perfino una piccola sorpresa ai fan del thriller bestseller “Dietro i suoi occhi“!

E che pure, secondo me, inizia a scivolare proprio là dove l’autrice britannica dovrebbe essere più ferrata: vale a dire, nella preparazione del diabolico twist finale, gestito in maniera superficiale e, a mio avviso, decisamente poco credibile.


La trama

Dall’esterno, la vita di Emma è assolutamente perfetta. Ha tutto ciò che una donna potrebbe desiderare: una carriera prodigiosa, un compagno amorevole, una bellissima casa, due figli meravigliosi.

Eppure, c’è qualcosa che tiene Emma sveglia ogni notte. E, a mano a mano che il suo quarantesimo compleanno si avvicina, una crescente sensazione di malessere si impossessa di lei.

Emma ha cercato così a lungo di proteggere la sua famiglia, di tenerla al riparo dai segreti più torbidi del suo passato. Ma, si sa, l’ora delle streghe adora i segreti…

E quello di Emma? E’ fatto della stessa materia di cui sono composti gli incubi.



“Insonnia” di Sarah Pinborough: la recensione

A dire il vero, credo di essermi imbattuta nel romanzo di Sarah Pinborough esattamente al momento giusto. Da adulta che lavora (e che, tuttavia, sta cercando di fare un completo reboot della sua vita…), mi sono ritrovata al centro di una sessione di esami universitari abbastanza indiavolata. Per qualche settimana, quindi, mi sono vista costretta ad abbandonare i miei mondi incantati per trasferirmi (metaforicamente parlando) nella Firenze medicea, pronta ad approfondire la mia conoscenza dei classici rinascimentali.

Una bella esperienza, non posso negarlo. E anche preziosa! Tuttavia, nei (rari) momenti di pausa, avvertivo acutamente la mancanza dei “miei” libri. Eppure, immergermi in un tomazzo fantasy di 800 pagine, in queste circostanze, mi sembrava una tentazione pericolosa. Un capitolo tira l’altro, e…  sappiamo tutti come funzionano certe cose, no?

Perché non provare a rivolgermi, allora, a quello che è il mio secondo genere preferito, il thriller, con i suoi ritmi metropolitani e le sue atmosfere avvolgenti, sincopate, stranamente rassicuranti?

E così, ecco entrare in gioco la mia recensione di “Insonnia” di Sarah Pinborough.

Un libro a tratti irritante, a tratti divertente, che gioca con il concetto di narratore inaffidabile e calca costantemente la linea fra il thriller domestico e il mistery sovrannaturale.
I personaggi, diciamocelo, sono di un’odiosità sconvolgente. Una scelta deliberata, si direbbe. E che, peraltro, non sconvolgerà affatto i lettori dei precedenti libri della Pinborough…


Emma, la Mattatrice…

A dirla tutta, il crudo numero di cliché a cui ricorre l’autrice mi ha sconcertato. Ma non posso negare di essermi gustata ogni singolo momento di dissacrante scomposizione della tua piccola, rassicurante, idealizzata famigliola borghese di quartiere…

Dialoghi sgradevoli, rapporti interpersonali fatti di creta, e una protagonista che sembra uscita dell’incubo di un patriarca conservatore di provincia: la “donna coi pantaloni”, quella che porta i soldi a casa ma che, sotto sotto, trova anche un po’ patetico il fatto che tu gliel’abbia lasciato fare.

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“Spice Road”: la recensione del libro fantasy di Maiya Ibrahim


spice road recensione - maiya ibrahim

Nella recensione di “Spice Road”, ci troveremo ancora una volta a fare i conti con la domanda che, da un po’ di tempo a questa parte, tende a ronzarmi nell’orecchio ogni volta che mi accosto a un libro fantasy YA: quale dovrebbe essere, esattamente, lo scopo di un buon romanzo d’avventura per ragazzi?

Dal canto mio, ho sempre avuto una teoria: intrattenere, coinvolgere, affrontare tematiche care alla vita di ogni giorno di un adolescente… e magari, occasionalmente, invitarlo anche a riflettere su alcuni importanti argomenti di attualità.

Eppure, adesso, sta prendendo piede un’altra tendenza. Come se l’obiettivo primario di un libro fantasy dovesse essere quello di… Bè, non voglio dire “indottrinare” il lettore. Sembra una termine un po’ forte, no? Perfino esagerato. Ma devo ammettere che sto facendo fatica a tenermi lontana da questa parola.

Perché quando il tono di una narrazione è così piatto, la tecnica maldestra, i toni melodrammatici e la trama appesa a un filo, è chiaro che si stenta a inquadrare il senso di una storia che non fa altro che spiattellarti in faccia lo stesso messaggio ancora, e ancora, e ancora…


La trama

Qalia è una città segreta, nascosta nel deserto. Qui circola una spezia magica, in grado di risvegliare le affinità di chiunque beva il misterioso tea al misra.

Imani ha diciassette anni e un’affinità nei confronti dell’acciaio. La ragazza è in grado di maneggiare una spada come nessun altro guerriero, cosa che le ha guadagnato una reputazione invidiabile e una posizione fra gli “Scudi”, la guardia d’elite incaricata di proteggere la città.

Imani ha combattuto contro pericolosi djinn, ghouls e altri mostri che si annidano nelle sabbie ai confini della città.

Tuttavia, la scomparsa di suo fratello maggiore ha gettato un’ombra sulla sua reputazione. Perché il giovane, prima di andarsene, ha rubato una scorta di misra, trascinando nel fango il buon nome della sua famiglia e mostrando i primi sintomi di quella che potrebbe presto diventare un’ossessione magica.

Imani credeva che suo fratello fosse morto nel deserto. Ma quando emerge una serie di prove contrarie, la ragazza stringe un patto con il Concilio per ritrovare il ragazzo e riportarlo a casa, prima che possa rivelare al mondo esterno l’ubicazione della leggendaria città di Qalia. Nel suo pericoloso viaggio, verrà accompagnata da Qayn, un dijinn impertinente quando affascinante, e da Taha, un arrogante Scudo in grado di comunicare con gli animali.

Come Imani avrà modo di scoprire, molti segreti albergano al di là delle Terre Desolate – e nel suo stesso cuore. Ma riuscirà a ritrovare suo fratello, prima che il suo tradimento metta a repentaglio il fato di Qalia?



“Spice Road”: la recensione

Se hai apprezzato libri come “The Unbroken” di C. L. Clark o “Babel” di R. F. Kuang, sospetto che “Spice Road” abbia qualche possibilità di colpirti in positivo.

Non necessariamente perché tu abbia gusti o interessi diversi dai miei (questi titoli fanno parte anche della mia libreria, dopotutto). Molto più semplicemente, ho l’impressione che potresti aver sviluppato una soglia di tolleranza più alta della mia, nei confronti di certa supponente autoreferenzialità retorica.

Coltivare soltanto il messaggio politico, a discapito della cura strutturale e formale del testo (personaggi, worldbuilding, archi trasformativi, trama ecc.), francamente sta diventando un trend che non riesco più a giustificare.

A beneficio di “Spice Road”, devo aggiungere che, certo, Maiya Ibrahim dedica una certa attenzione anche all’elemento romantico!

La relazione fra Taha e Imani vanta parecchie sfumature, dal punto di vista emotivo, arrivando a incarnare una versione complessa ed evoluta del trope dell’enemies-to-lovers. Peccato che si tratti di un rapporto altamente tossico, basato sul disprezzo reciproco e su un certo narcisismo di fondo (perché, diciamocelo, vorrà pur dire qualcosa il fatto che i due personaggi principali scoprano di piacersi soltanto nel momento in cui si trasformano l’uno nello specchio dell’altra).

Da un punto di vista “alchemico”, stiamo peraltro parlando di due grandissimi pezzi di legno, del tutto incapaci di generare una scintilla.

A scaldare l’ambientante avrebbe dovuto provvedere, forse, Qayn, il secondo interesse romantico di Imani. Un personaggio che, in linea teorica, avrebbe potuto contribuire a innescare un focolaio di interesse nei confronti delle dinamiche che si sviluppano all’interno della coppia principale. Purtroppo, anche nel caso del djinn, mi è parso di assistere alla compresenza di una quantità sterminata di cliché, elementi che abbiamo già visto interagire in un triliardo di altri sornioni personaggi-trickster prima di lui.

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“What Lies in the Woods”: la recensione del mistery di Kate Alice Marshall


what lies in the woods recensione - kate alice marshall

Questo martedì, la recensione di “What Lies in the Woods” ci accompagna!

Il libro di Kate Alice Marshall è un nuovo, torbido “small town mistery”. Ma, a essere del tutto sincera, stavolta si tratta di una lettura che ho trovato indigesta, e sotto parecchi punti di vista. Dopotutto, esistono poche cose più noiose di un thriller che non è in grado di coglierti di sorpresa neanche per un secondo, dico bene?


La trama

Un tempo, Naomi Shaw credeva nella magia. Ventidue anni fa, lei e le sue due migliori amiche, Cassidy e Olivia, erano solite trascorrere l’estate scorrazzando per i boschi, immaginando un mondo di cerimonia e di incanto. Lo chiamavano il “Gioco della Dea”.

La loro ultima estate insieme è finita con l’inspiegabile aggressione subita da Naomi. Per puro miracolo, la ragazza è riuscita a sopravvivere a diciassette coltellate e a identificare l’uomo che l’ha attaccata. La testimonianza della ragazza è stata decisiva per identificare il serial killer che stava terrorizzano l’area, peraltro già ricercato per l’omicidio di sei donne.

Agli occhi della comunità, Naomi e le sue amiche si sono comportate da eroine.

Ma, in realtà, le tre ragazze sono delle bugiarde.

Per decadi, hanno continuano a tenersi stretto un segreto per cui potrebbe valere la pena uccidere. Adesso, però, Olivia è pronta a rivelare la verità. Naomi, che soffre di amnesia selettiva, decide allora di scoprire cosa è accaduto davvero quel giorno, svelando la catena di eventi che ha portato al suo attacco.

Ma non ha idea di quello che potrebbe costarle



“What Lies in the Woods”: la recensione

“What Lies in the Woods” schiera in campo una protagonista bisessuale (ma che, stranamente, sembra attratta soltanto dalla sfilza di personaggi maschili che si materializzano sulla sua strada…), un armamentario di twist telefonatissimi, una deprimente collezione di cliché spacciati per archetipi…

Il risultato? Un mistery a forti tinte rose che mi sentirei di consigliare soltanto a un lettore alle primissime armi; uno che, possibilmente, non abbia mai sentito parlare di Paula Hawkins o Gillian Flynn. Ma neanche di Taylor Adams o Simone St. James, se per questo.

Praticamente, ti basta leggere la sinossi riportata in quarta di copertina per scoprire tutto quello che c’è da sapere a proposuto di questa storia e di dove andrà a parare. La stessa cosa che aveva attirato la mia attenzione – il “Gioco della Dea”, la dinamica angosciante e pericolosa che si viene a instaurare fra le tre bambine/giovani donne – si rivela, del resto, una sorta di specchietto per le allodole.

Sì, perché Kate Alice Marshall impiega UN ATTIMO a sminuire la complessità e le sfumature dell’amicizia al femminile, riducendo tutto a una deprimente pioggia di stereotipi.

Per cominciare, le basta trasformare la sua protagonista nella classica eroina tormentata a caccia di un cavaliere dalla scintillante armatura, e proseguire confinando le sue due amiche al ruolo di spalla/macchietta (non scendo nei particolari, per evitare quei due o tre spoiler in cui potresti davvero rischiare di incappare).


La verità è là fuori

Cosa resta, allora, di una premessa che poteva sembrare – non dico rivoluzionaria – ma quantomeno abbastanza intrigante da giustificare la lettura dell’ennesimo thriller?

Bè, sei sei interessato a quel genere di cose, sicuramente l’autrice approfondisce il tema delle varie turbe sentimentali della protagonista. Una donna adulta (che, peraltro, è stata vittima di abusi da adolescente…) e che, adesso, si sente incline sfoggiare le sue cicatrici e a mostrarsi come cinica, disincantata ecc. Ma che poi riesce, miracolosamente, a innamorarsi di un tizio gentile a caso nel giro di quattro pagine e a fidarsi ciecamente di lui… al punto da confidargli allegramente tutti i segreti della sua vita, compresi quelle delle sue cosiddette “amiche”.

Non vorrei, ora, che tu rischiassi di fraintendere i toni di questa recensione di “What Lies in the Woods”. Non nutrivo aspettative stellari nei confronti del titolo di Kate Alice Marshall . Quello che cercavo, semplicemente, era una buona forma di intrattenimento, qualcosa in grado di distogliermi dai miei studi per qualche ora.

Mi era già chiaro, insomma, che il romanzo non sarebbe stato un nuovo “Creature del Cielo” o una versione alternativa di “Mare of Easttown”.

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“How to Sell a Haunted House”: la recensione del folle libro horror di Grady Hendrix


how to sell a haunted house recensione - grady hendrix

La recensione di “How to Sell a Haunted House” di Grady Hendrix sarà un po’ ambigua, temo.

Cercherò di spiegarmi meglio nel corso dell’articolo. Il succo del discorso, però, è che nutro dei sentimenti abbastanza ambivalenti nei confronti di questo surreale campy horror a tema pupazzetti dall’inferno!

Da una parte, infatti, ho sicuramente apprezzato la contagiosa ironia dell’autore, nonché il suo sforzo di conferire un certo livello di profondità emotiva all’intera vicenda. Dall’altra, devo ammettere di non essere rimasta particolarmente colpita dall’altalenante costruzione della trama, né da quella dei personaggi


La trama

Quando Luoise scopre che i suoi genitori sono morti, non è affatto felice all’idea di dover tornare nella sua città d’orgine. Tanto per cominciare, non ha nessuna voglia di lasciare la sua bambina, Poppy, alle cure del suo ex, per volare a Charleston da sola.

E poi, Louise non è certo ansiosa di avere a che fare con la casa dei suoi genitori! L’edificio, infatti, è stracolmo di ricordi. Contiene tutto ciò che resta della carriera accademica di suo padre e dell’eterna ossessione di sua madre verso bambole e pupazzi.

Soprattutto, Luoise non vuole avere a che fare con il suo nullafacente fratello, Mark.

Mark, dal canto suo, non ha certo intenzione di renderle le cose più facili. L’uomo, che non ha mai lasciato Charleston e non è mai riuscito a tenersi un lavoro per più di qualche giorno, cova un grandissimo risentimento nei confronti della sorella. Sfortunatamente, Luoise dovrà trovare un modo per dialogare con Mark, se intende preparare la casa per la vendita.

Specialmente perché, a quanto pare, non bastano una mano di vernice e una sana dose di pulizie per rendere appetibile per il mercato una vecchia magione infestata.

Certe case non hanno nessuna intenzione di essere cedute. Quella di Louise e Mark, ad esempio, sta preparando piani di tutt’altro genere nei confronti dei suoi proprietari…




“How to Sell a Haunted House”: la recensione

Nei suoi aspetti essenziali, “How to Sell a Haunted House” ” si legge quasi come una sorta di bizzarra saga famigliare condensata… con un sadico emulatore del pupazzo Slappy a fare da improbabile collante intergenerazionale, e un gustoso contorno di intermezzi comico-demenziali a ravvivare sporadicamente l’atmosfera.

C’è da dire che, se non avessi divorato – e visceralmente amato – due dei precedenti romanzi dell’autore (“My Best’s Friend Exorcism” e “Gruppo Sostegno Ragazze Sopravvissute”, entrambi in editi in Italia da Mondadori), forse stavolta non sarei riuscita a spingermi oltre pagina settanta.

Perché credo di aver cominciato a sviluppare un piccolo problema nei confronti dei “primi atti” delle opere di Grady Hendrix: i capitoli introduttivi mi annoiano un po’, probabilmente perché ai protagonisti dei suoi libri serve sempre del tempo per riuscire a rendersi riconoscibili ed ergersi al sopra della baraonda di gag, battute e azione sfrenata che l’intreccio tende sempre a scagliare nella loro direzione. Nel caso di “How to Sell a Haunted House”, devo dire che questo fenomeno si è replicato alla perfezione.

In realtà, a fine lettura mi sentirei di definire Luoise, l’eroina del libro, come un “personaggio abbastanza ok“. Suo fratello Mark, viceversa, mi è sembrato un idiota colossale e infantile dalla prima all’ultima pagina. Tant’è che ho fatto veramente fatica a mandar giù una lunga (e delirante) parentesi narrata dal suo punto di vista.

Il che, fra l’altro, rappresenta un altro dei problemi principali: perché i frequenti flashback, i retroscena, le digressioni, a tratti rendono la lettura pastosa e, a mio avviso, anche un filino pedante. Nella seconda parte, per fortuna, questo meccanismo inizia ad attenuare i suoi effetti, permettendo a Hendrix di dispiegare tutti i suoi punti di forza, i suoi caratteristici assi nella manica: ad esempio, il fattore nostalgia, la metafora sovrannaturale, le complicate sfumature dei rapporti famigliari, il sense of wonder tipico dell’infanzia…


Lo “spirito dell’infanzia”

Direi che è arrivato il momento di bilanciare la mia recensione di “How to Sell a Haunted House”, introducendo alcune considerazioni relative a quelli che sono, invece, i miei elementi preferiti del libro.

Ho apprezzato tantissimo, ad esempio, l’atmosfera disturbante e retrò della narrazione. Ma anche l’originalità dei colpi di scena e gli sviluppi imprevedibili (per non dire esilaranti) portati dal classico trope horror dei “pupazzetti malevoli che prendono vita”.

Se i film del franchise “Annabelle” avessero la metà della personalità del romanzo di Grady Henrix, ci troveremmo senza dubbio alle prese con alcuni degli horror più inquietanti e divertenti dell’ultimo decennio!

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“Bright Falls”: la recensione della trilogia romcom di Ashley Herring Blake


Bright Falls recensione - delilah green - astrid parker - iris kelly

La recensione della trilogia “Bright Falls” di Ashley Herring Blake non può che iniziare dalla mia romcom preferita di sempre, alias “Delilah Green Doesn’t Care”.

In realtà, ho amato profondamente tutti e tre i libri della serie. Ma il primo resta, a mio avviso, quello che ritrae i personaggi migliori e le dinamiche più coinvolgenti, oltre ai momenti più divertenti in assoluto.

Sullo sfondo dei tre romanzi, troviamo la pittoresca cittadina di Bright Falls, con le sue atmosfere da cartolina e i suoi ecclettici personaggi inclini al banter in stile “Gilmore Girls“. Per non parlare di alcuni fra i tropes più popolari tra i lettori di romanzi rosa: grumpy×sunshine, fake dating, enemies-to-lovers, found family ecc…


“Bright Falls” – la recensione: “Delilah Green Doesn’t Care”

Tutto ha inizio quando Delilah Green, cinica e mondana fotografa newyorchese, è costretta a tornare nella sua minuscola cittadina natale. Un posto che detesta e in cui ha trascorso un’infanzia infelice e un’adolescenza tormentata, al fianco dell’algida matrigna Isabelle e dell’istrionica sorellastra Astrid.

Delilah aveva fatto un giuramento a se stessa: non rimettere mai più piede nell’odiata Bright Falls. Ma l’imminente matrimonio di Astrid (peraltro, con quello che l’irriverente Delilah considera un gran pezzo d’asino…) alla fine le forza la mano.

Per “vendicarsi” di questo imprevisto contrattempo, Delilah decide di provare a sedurre Claire Sutherland, una delle amiche del cuore di Astrid. Una notte di passione e via, verso la prossima avventura… con il bonus aggiuntivo di annoiare profondamente Astrid!

Dopotutto, se esiste un’arte in cui la ribelle Delilah è sempre riuscita a eccellere… Non ha forse a che fare con la sua straordinaria abilità di recitare la parte della costante spina nel fianco? L’incorregibile pecora nera di famiglia, o qualcosa del genere?

Il piano, certo, è di una stupidità inaudita. Delilah, forse, sarebbe la prima ad ammetterlo. Eppure, chi potrebbe immaginare fino a che punto il suo stesso progetto stia per ritorcersi contro di lei? Soltanto nel momento in cui comincerà a perdere seriamente la testa per Claire, dolcissima bibliotecaria alle prese con una figlia pre-adolescente, Delilah inizierà a sospettare di essere infilata in un guaio molto, molto più grande di lei…

“Delilah Green Doesn’t Care” è un libro rosa leggero, divertente e incentrato su una coppia di protagoniste dotate di un’alchimia sorprendente. I dialoghi sono irresistibili e pieni di verve, una caratteristica che contribuisce ad allontanare la storia dal regno dell’angst gratuito e a spingerla più verso il perimetro della tua classica romcom in stile Reese Whiterspoon o Sandra Bullock. Il romanzo affronta, peraltro, alcune tematiche collaterali quali il rapporto con la famiglia d’origine e l’antagonismo fra sorelle. E lo fa in un modo molto simpatico e brioso, senza mai rischiare di scivolare nella superficialità o nel buonismo a buon mercato.

Ah, peraltro “Delilah Green Doesn’t Care” vanta il merito aggiuntivo di introdurre le altre due grandi protagoniste della serie “Bright Falls”: la nevrotica ice queen Astrid Parker e l’esuberante party girl Iris Kelly…



“Astrid Parker Doesn’t Fail”: la recensione

Continuiamo la nostra recensione della serie “Bright Falls” introducendo Astrid, sorellastra di Delilah e implacabile stacanovista del lavoro. Una giovane donna che vive assecondando un unico, incontrovertibile comandamento: il fallimento, in tutte le sue forme, è da considerarsi anatema inaccettabile!

Peccato che la rottura definitiva con un fidanzato ricco, ma odioso, e un paio di grossi problemi dal punto di vista professionale stiano per mettere a dura prova il suo stile di vita. Quel poco che resta del suo tradizionale aplomb? Verrà messo a dura prova da due ulteriori “elementi di disturbo”: da una parte, le continue interferenze nella sua vita privata da parte di sua madre, la tirannica Isabelle Parker-Green; dall’altra, la profonda confusione che Astrid (dopo una vita trascorsa all’insegna della più totale eterosessualità) inizia a provare nel momento in cui si scopre attratta dalla solare compagna di lavoro Jordan Everwood.

In “Astrid Parker Doesn’t Fail”, Ashley Herring Blake introduce la “variabile” del reality show e lo fa moooolto bene, preparando la scena per una serie di siparietti comici e momenti romantici dal taglio assolutamente delizioso. Peraltro, il libro torna a indagare le complesse dinamiche madre/figlia e a esplorare il concetto di bisessualità, seguendo il graduale-ma-tenero percorso di accettazione di Astrid della propria identità.

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“Fourth Wing”: la recensione del libro romantasy di Rebecca Yarros


fourth wing recensione - rebecca yarros

La recensione di “Fourth Wing” è rimasta “in caldo” per un sacco di tempo. Adesso che la data d’uscita italiana (7 novembre 2023) è dietro l’angolo, però, direi che è arrivato finalmente il momento di vuotare il sacco: cosa penso dell’attesissimo, chiacchieratissimo, super-popolare romanzo di Rebecca Yarros?

Innanzitutto, parliamoci chiaro: “Fourth Wing” è un pageturner, e chiunque sostenga il contrario… bè, forse farebbe meglio a evitare di appoggiare una mano sulla Bibbia al cospetto di un giudice!

Eppure, sospetto che sarai d’accordo con me: di solito, esiste una bella differenza fra “guilty pleasure” e “miglior libro fantasy del 2023”…  quale che sia, a fine anno, il verdetto dei famosi “Goodreads Choice Awards”!


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La trama

A vent’anni, Violet Sorrengail sta per entrare a far parte del Quadrante degli Scribi: l’obiettivo per cui si è preparata per tutta la vita e che, in teoria, rappresenta la miglior garanzia di ottenere un futuro tranquillo, all’insegna di libri e manuali di storia. Tuttavia, il generale comandante delle forze armate della nazione– una donna a cui Violet è solita riferirsi anche con il nome di “mamma” – è di tutt’altra opinione.

Ed è proprio lei a ordinare alla figlia minore di unirsi alle centinaia di candidati che, ogni anno, si sottomettono a una competizione spietata per entrare a far parte della forza militare d’elite di Navarre: i cavalieri dei draghi.

Ma quando sei più esile di chiunque altro, e il tuo corpo si rifiuta di comportarsi a dovere, la morte è sempre a un tiro di schiocco… soprattutto perché i draghi rifiutano di legarsi agli uomini che considerano “fragili”.

E, nel momento in cui negano loro la propria alleanza, reagiscono anche in una maniera piuttosto scortese: in effetti, li inceneriscono.

Come se non bastasse, i cadetti si sentono in dovere di ammazzare chiunque minacci la stabilità dell’esercito o, più in generale, chiunque commetta l’errore di entrare in competizione con loro. Il resto dei cavalieri? Ucciderebbe Violet per il semplice fatto di essere figlia di sua madre: a partire da Xaden Riorson, il più potente e spietato capo-ala del Quadrante dei Cavalieri.

Se vuole sperare di assistere alla prossima alba, Violet dovrà ricorrere a ogni singola oncia del suo ingegno…

Amici, nemici, amanti. Tutti, al Collegio Militare Basgiath, hanno un piano segreto. Perché, una volta entrato a far parte della scuola, puoi sperare di uscirne soltanto in un modo: da diplomato, o da morto.



“Fourth Wing”: la recensione

Se mai dovessi sentire il bisogno di trovare una conferma all’intrinseca falsità dell’equazione “tomazzo molto lungo = romanzo impegnativo”, ti autorizzo personalmente a usare l’esempio offerto dal romanzo di Rebecca Yarros.

L’edizione americana di “Fourth Wing” (quella che ho letto io) conta quasi 600 pagine; la versione Sperling & Kupfer, se non sbaglio, si aggirerà attorno alle 520: una lunghezza considerevole, per un libro che – acrobatiche scene di sesso a parte – in realtà ha tutte le carte in regola per candidarsi al rango di perfetto prototipo di YA.

Eppure, posso assicurarti che il primo volume della serie “Empyrean” si legge veramente d’un fiato! La scorrevolezza della narrazione, la velocità dell’azione, la familiarità delle avventure, i dialoghi frizzanti… ogni elemento concorre a favorire il fattore “immersione”, rendendo l’esperienza di lettura piacevole e avvincente.

In realtà, ho apprezzato parecchie elementi di questo libro (voglio dire, vogliamo parlare del bellissimo rapporto fra Violet e i draghi?!). Eppure, in questa mia recensione di “Fourth Wing”, sono soprattutto due i punti sui quali mi piacerebbe soffermare l’attenzione: da una parte, la grande forza d’attrazione rappresentata dalla tematica principale e, dall’altra, l’esperta, scaltrissima gestione della componente romantica.

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