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“Goosebumps – The Vanishing”: la recensione della serie tv tratta dai libri di R. L. Stine


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Ancora oggi, non sarei in grado di spiegarti cosa mi abbia portato a seguire “Goosebumps: The Vanishing“, quando la prima stagione di questa serie horror antologica per ragazzi mi aveva così profondamente e incontestabilmente tediato.

Anzi, no, mi correggo… Ma certo che lo so: è solo che, da brava fan di “Friends“, ho sempre adorato David Schwimmer! L’idea di vederlo tornare sulle scene – nei famigliari panni dello stravagante papà scienziato, peraltro – mi entusiasmava parecchio.

Non sono pentita della mia scelta, perché, tutto considerato, direi che questa nuova stagione è riuscita a garantirmi una bella nidiata di episodi gustosi e scaccia-pensieri, pienamente allineati a quello che è sempre stato lo spirito dei mitici romanzi di R. L. Stine: adulti inquietanti, ragazzini ficcanaso, misteri brividosi e un’autentica valanga di campy horror


Di cosa parla “The Vanishing“, la nuova stagione di “Piccoli Brividi” su Disney+

I gemelli adolescenti Cece (Jayden Bartels) e Devin (Sam McCarthy) Brewer si trasferiscono a casa del padre Anthony (Schwimmer) per un’estate.

Da parte sua Anthony, un brillante botanico, accoglie il ritorno dei figli con grande calore. Ma sembra anche turbato e distratto, perennemente immerso nel suo lavoro e nelle nebbie di un passato che non pare disposto a lasciarlo andare. L’inspiegabile scomparsa dell’amato fratello maggiore, infatti, grava ancora parecchio sulla sua coscienza. Intanto, i suoi ragazzi, all’oscuro della maggior parte di questi eventi, si aggirano per i sobborghi, nel tentativo di (ri-)allacciare amicizie vecchie e nuove.

Un giorno, però, il bellicoso Trey (Stony Blyden), il nuovo ragazzo della prima cotta di Devin, finisce infettato da un morbo misterioso. Si trasforma così in una sorta di aggressivo mostro mutante, catapultando i gemelli e la loro nuova banda di amici al centro di un vortice di avventure e macabri avvenimenti in stile “X-Files“.

Per salvarsi, dovranno unire le forze e svelare il mistero che si cela dietro un’inquietante base militare abbandonata…


Goosebumps – The Vanishing“: la recensione

Ascolta, io la vedo così: puoi ritrovarti ad apprezzare l’inaspettata virata sci-fi intrapresa dalla serie tv antologica sviluppata da Rob Letterman e Nicholas Stoller… oppure no.

Da un punto di vista personale, devo ammettere che la sceneggiatura della prima stagione di “Piccoli Brividi“, pur con tutti i suoi difetti, mi aveva intrigato di più; probabilmente perché rappresentava un concentrato di tutti i miei titoli preferiti della serie di libri di R. L. Stine, da “La Maschera Maledetta” a “Il Pupazzo Parlante“.

In questo caso, invece, ammetto di aver riconosciuto forse la metà dei riferimenti (sicuramente “Il Mistero dello Scienziato Pazzo“, ma anche “Un Barattolo Mostruoso” e “Il Campeggio degli Orrori“…). Per cui, il fattore nostalgia, su di me, in questo caso non è stato in grado di esercitare un grande effetto.

Nonostante ciò (e malgrado la presenza di un plot afflitto da svariate magagne strutturali… ma di questo parleremo fra un istante!), ho trovato “The Vanishing” più divertente e coinvolgente rispetto alla prima stagione.

Probabilmente perché ho apprezzato di più la costruzione dei personaggi (anche se l’arco trasformativo-lampo di Trey rappresenta forse la seconda cosa più ridicola dell’universo, subito dopo gli squinternati baffetti a sopracciglio di Timothée Chalamet…) e le interpretazioni del cast, nonché il drastico ridimensionamento di alcuni determinati, esasperanti patemi sentimentali che, nel corso della prima stagione, sembravano costituire il 90% delle dinamiche fra i protagonisti…


E se il sipario fosse calato… troppo presto?

In effetti, dispiace un po’ pensare che, perfino se lo show dovesse essere rinnovato, difficilmente vedremo tornare in scena Schwimmer, Ana Ortiz (la poliziotta Jen) o uno qualsiasi dei ragazzi di “The Vanishing“.

Perché sarebbe stato senz’altro piacevole avere più tempo a disposizione per imparare ad affezionarsi ai promettenti personaggi secondari dello show. Cosa che sarebbe senz’altro avvenuta, se soltanto la serie avesse permesso allo spettatore di arrivare, piano piano, a investire le proprie emozioni nei loro drammi e nelle loro difficoltà (rapporti con i genitori, legami sentimentali, conflitti economici ecc.).

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“Agatha All Along”: la recensione della serie tv Marvel che ha (finalmente!) riportato le streghe in tv


Agatha all along banner

Da quanto tempo stavo aspettando di pubblicare la recensione di “Agatha All Along”?

Quasi un mese, ormai. Mi sono ufficialmente trasformata nella proverbiale tizia incaricata di chiudere la parata; e c’è da dire che, nel caso specifico in questione, mi rammarico del ritardo addirittura più del solito.

Anche perché ti assicuro che ho seguito fedelmente, ogni settimana, gli episodi rilasciati su Disney+. Anzi… La verità è che mi sono ritrovata a fagocitarli, in preda a un considerevole livello di adorazione!

E… sì, lo so: dal mio punto di vista personale, pare abbastanza chiaro che “Agatha All Along” poteva soltanto ambire diventare LA serie Marvel per antonomasia. La prima e unica pensata, scritta a interpretata avendo la sottoscritta come rappresentante del proprio pubblico ideale, anziché il classico trentenne maschio che va a letto indossando i boxer di Spider-Man e sognando di avere il savoir faire di Iron-Man (ehi, guarda che non sto mica criticando, eh? Sarà dal 2019 che vado a dormire ogni sera indossando la mia t-shirt viola di Captain Marvel…).

Voglio dire, quando gli ingredienti di uno show televisivo sono:

  • una squinternata congrega di streghe;
  • delle irresistibili vibes in stile “Hocus Pocus”;
  • una protagonista moralmente ambigua, trickster e queer;
  • un pizzico di sapphic yearning;
  • Kathryn Hahn + Aubrey Plaza = ♥…

… come diavolo puoi spettarti di piazzare me davanti al televisore e non fare centro?

Eh, già. La cosa che mi ha intrippato di più, però? Una volta tanto, ho potuto condividere il mio entusiasmo per qualcosa di eccentrico, ben fatto e diverso con il resto del grande pubblico…


Di cosa parla “Agatha All Along”?

“Agatha All Along” è uno spin-off della monumentale miniserie “WandaVision“, a sua volta disponibile sulla piattaforma streaming Disney+.

Dopo la partenza di Wanda (Elizabeth Olsen) da Westview, la strega Agatha è rimasta in città, prigioniera di un incantesimo dalle condizioni alquanto peculiari.

Agatha ha perso buona parte della sua magia. Non ha memoria del suo passato e si crogiola in una lunga serie di allucinazioni derivate dalla sua vasta conoscenza di telefilm polizieschi e/o a sfondo procedurale (qualcuno ha detto “Mare of Easttown“, per caso?).

Tuttavia, l’arrivo di una vecchia nemesi e di un misterioso ragazzino la spingeranno a formare una nuova congrega e a imbarcarsi in una lunga e pericolosa quest per la riconquista dei suoi poteri…


Giù, giù, giù per la Strada della Strega…

Prima di “Agatha All Along”, diciamo che non avevo proprio litigato con il MCU. Ma quasi.

Non mi è piaciuto il modo in cui hanno gestito la metà dei progetti post-Endgame. E sì, sto deliberatamente includendo nella lista il simpatico “The Marvels“: perché, anche se l’ho trovato divertente, piacevolmente fresco e genericamente ca**one, sappiamo tutti che il film avrebbe potuto ambire a rappresentare l’inizio di qualcosa di grande, anziché accontentarsi di incarnare una momentanea parentesi di leggerezza e demenzialità.

Miss Marvel“, dal canto suo, rappresenta forse un’iniezione di contagioso ottimismo multiculturale; ma la forzata giovialità di “She-Hulk” risulta deprimente persino per una millenial abituata agli exploit di “Ally McBeal”, mentre “Moon Knight” ha segnato la più importante scoperta contro l’insonnia dai tempi della creazione del Valium.

Di “Quantumania“, onestamente, mi rifiuto anche soltanto di parlare.

Insomma, ultimamente era andata così.

E poi, d’un tratto, dal nulla, eccoti arrivare una piccola bomba del calibro di “Agatha All Along”. Con la sua sceneggiatura brillante e i suoi dialoghi esilaranti, i suoi personaggi larger-than-life e il suo tormentone autunnale degno della Digital Song Chart Record…

Pronta a dimostrare, semmai ce ne fosse stato bisogno, che i troll della domenica sera non hanno mai capito una cippa. Non è del ritorno trionfale di quel bolso di Robert Downey Jr. nei panni del Doctor Doom, che il MCU ha bisogno; né di qualsiasi altro patetico stunt pubblicitario dello stesso tipo.

E’ soltanto di buone storie, che noi fan di vecchia data abbiamo bisogno. Di tematiche universali, scene d’azione che non siano lì soltanto per fare “boom” e “bang” , e di archetipi in grado di risuonare con i nostri con i nostri sogni, le nostre paure e le nostre esperienze.

E, soprattutto, di registi e sceneggiatori che, come Jac Schaeffer e la sua squadra, dimostrino una grande consapevolezza di quelle che sono le aspettative del pubblico e delle varie potenzialità espressive in dotazione ai loro medium…


Chi non risica, non rosica?

Da questo punto di vista, “Agatha All Along” ha rappresentato, forse, una scommessa rischiosa per la Marvel. Lo testimoniano il budget moderato, e la lunga serie di flop che ha preceduto il debutto dei suoi primi episodi.

Eppure, a mio avviso, la scarsità di fondi (relativamente parlando, si capisce…) in realtà ha soltanto giocato a favore dello show, perché ha costretto la showrunner a concentrarsi su ciò che conta davvero: un buon uso delle tecniche di storytelling, un intreccio in grado di stimolare le capacità deduttive dello spettatore, e un cast di attori che sembrano praticamente nati per interpretare i ruoli assegnati loro in questa serie!

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