Intendo aprire la mia recensione di “Babel”, il nuovo libro di R. F. Kuang, ponendo al lettore due domande all’apparenza insignificanti.
La prima: fino a che punto ami l’estetica del dark academia?
La seconda: in un romanzo fantasy, l’importanza e l’attualità della tematica, secondo te, dovrebbero avere la precedenza su tutto, o essere comunque subordinate allo sviluppo di una trama e di un sistema magico fatti come si deve?
La trama
Oxford, 1836.
La città delle spire sognanti. Il cuore di tutta la conoscenza e il progresso del mondo. E il suo centro è Babel, l’Istituto Reale di Traduzione. La torre dalla quale scorre tutto il potere dell’Impero.
Dopo che una piaga ha spazzato via il resto della sua famiglia, è qui che approda Robin Swift. Di origini cantonesi, portato in Inghilterra da un guardiano che ha sorvegliato scrupolosamente la sua educazione – ma che non si è mai preso la briga di mostrargli un minimo di affettività – il ragazzo è convinto che Babel sia un paradiso, il luogo in cui tutti i suoi sogni diventeranno realtà.
E, all’inizio, è così.
Robin, infatti, stringe una profonda amicizia con tre ragazzi del suo anno e si dedica anima e corpo ai suoi studi. Diventerà qualcuno, dice a se stesso. E trascorrerà la vita a servire quella stessa città che gli ha offerto così tanto.
Fino a quando non entra in contatto con un membro di una società segreta di ribelli; un giovane con cui Robin scopre di avere parecchie cose in comune, e che sembra pronto a metterlo a parte dei risvolti più oscuri dell’attività di traduzione magica in atto nella sua università.
E così, a poco a poco, Babel si trasforma per Robin in una prigione.
Riuscirà uno studente a stagliarsi contro il potere dell’impero?
“Babel”: la recensione
In molti hanno descritto il nuovo romanzo di R. F. Kuang come un capolavoro imprescindibile, uno dei migliori libri fantasy del 2022.
E…
Ascolta, non dirò che trovo queste dichiarazioni inspiegabili: la gente è furiosa per le ingiustizie del mondo. Lo è dappertutto e, fra l’altro, direi che fa/facciamo moooolto bene a esserlo!
E “Babel”…
“Babel” è un libro che riesce a esporre le crudeltà, le violenze e le ingiustizie del regime coloniale britannico in tutto il loro aberrante splendore.
Solo che, nella sua fretta di tagliare la testa al toro, la Kuang si ostina a passare sopra (come suo solito) a tutte le complesse sottigliezze politico/culturali del caso e si limita a sbatterci in faccia i nostri peccati di ricchi bianchi privilegiati: dopotutto, la civiltà occidentale è stata alimentata dal sangue e dal sacrificio di tantissime altre popolazioni mondiali, e l’autrice – come è lecito aspettarsi – non ha alcuna intenzione di indorare la pillola ai suoi lettori.
Se hai letto la sua trilogia (peraltro, consigliatissima) de “La guerra dei papaveri”, probabilmente conosci già l’efferata brutalità con la quale la Kuang è solita dissezionare le sue tematiche.
C’è da dire che portare acqua al mulino della sua causa non è un compito particolarmente difficile; soprattutto perché ha ragione, e nulla di quanto sostiene è una bugia.
«Ma allora per quale motivo», ti starai chiedendo, «la lettura di “Babel” ti ha snervato e deluso così profondamente?».
Noi e Loro
Bè… prima di tutto, perché il romanzo della Kuang si traduce in un’arringa inarrestabile, un patrocinante flusso di fuoco e fiamme in difesa degli oppressi.
Nella sua trama, nella stessa costruzione dei suoi personaggi, non è possibile rilevare sfumature. Peggio ancora: non è previsto alcuno spazio per un’eventuale controtesi degli avversari, cosa che, a lungo andare, trasforma la narrazione in un prevedibile e oltraggiato cumulo di accuse.
Come un procuratore distrettuale al cospetto di una giuria da persuadere (in questo caso noi, il popolo dei lettori), R. F. Kuang elenca i mali della società mondiale e si limita a ignorare l’esistenza di tutti quegli indizi che non si prestano a supportare la sua semplicistica visione di un mondo perennemente diviso fra innocenti e colpevoli.
Politica internazionale, carenza di risorse, assolutismi, patriarcato, tensioni religiose, semplice contraddittorietà della natura umana?
Pfui!
L’autrice di “Babel” non sa che farsene, di certe quisquilie.
A giudicare da questo libro, per lei esiste soltanto la necessità di tracciare una netta linea di separazione fra Noi e Loro.
Tutta questa parzialità innesca, a lungo andare, una narrazione dai toni infiammati e didascalici; estremamente supponente e, a mio avviso, priva di qualsiasi potere dialettico, proprio perché incapace di concedere voce in capitolo alla sua controparte (fosse anche solo per concedersi la possibilità di demolire le loro tesi).
Continua a leggere