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“Hold Your Breath”: suspence, tempeste di polvere e archetipi ancestrali nel film con Sarah Paulson


Hold your breath - film horror 2024

Titolo: Hold Your Breath

Regia: Karrie Crouse e William Joines

Anno: 2024

Genere: Horror

Cast: Sarah Paulson, Amiah Miller, Alona Jane Robbins, Ebon Moss-Bachrach

Disponibile su: Disney+


“Hold Your Breath”: cosa ne penso del film

La sceneggiatura del film “Hold Your Breath” riesce a fare tante cose male, ma anche alcune bene. A essere sinceri, trovo che gli elementi poco riusciti della pellicola abbiano a che fare più con la regia e il montaggio, che non con la costruzione della trama.

Perché l’idea di ricorrere a un montaggio sincopato e stordente per sottolineare la graduale perdita di percezione della realtà a cui va incontro la protagonista non è necessariamente una scemenza, anzi. Ma diventa un errore nel momento in cui permette allo spettatore di smarrire completamente il filo della storia, minando la sua capacità di empatia nei confronti dei protagonisti e degli eventi narrati.

Del resto, non fa un gran bene al film neanche il denso (eccessivo?) simbolismo che permea le sue scene. Fra tempeste di proporzioni bibliche, sibilline apparizioni dell’Uomo Grigio e soffocanti mascherine che cercano di richiamare in ogni modo la recente pandemia, il film rischia di smarrire il focus un po’ troppo spesso, e senza neanche accorgersi delle cose importanti che si sta lasciando alle spalle… vale a dire, in primo luogo, l’attenzione e la curiosità dello spettatore.


Lode alla regina delle scream queen!

Tuttavia, per come la vedo io, “Hold Your Breath” – un film horror tutto sommato godibile, per certi versi addirittura intrigante – può contare anche su due grandissimi punti di forza. Il primo, ovviamente, è il cast, capitanato dalla nostra scream queen televisiva preferita, la magnifica Sarah Paulson (che rivedremo presto, forse, in una delle prossime stagioni di “American Horror Story“).

Ho trovato valida anche l’interpretazione della giovanissima Amiah Miller (“L’Esorcismo della Mia Migliore Amica“), nei coinvolgenti panni di una ragazzina abbandonata dagli adulti e costretta a prendere ogni sorta di decisione impossibile.

Interessante anche il personaggio di Ebon Moss-Bachrach, che in “Hold Your Breath” interpreta un predicatore dalla parlantina d’argento e i modi estremamente ambigui.


Suggestioni, spauracchi e polvere

Tuttavia, vorrei soffermarmi un momento a considerare l’altro elemento in cui “Hold Your Breath” riesce a eccellere: la costruzione dell’atmosfera. Un traguardo non da poco, considerando che stiamo parlando di un horror/thriller psicologico che ambisce a inquietare il suo pubblico in maniera disturbante e allusiva, senza stare lì a scomodare jumpscares e twist al cardiopalma.

Ma in che modo “Hold Your Bteath”, nelle sue sequenze più riuscite, riesce a farci spostare sul ciglio della poltrona, in preda a un’ansia smodata? A spingerci a trattenere il fiato, mangiucchiandoci le unghie, insieme ai suoi ambigui (e travagliati) personaggi?

Bè, a livello narrativo, secondo me le tecniche più significative sono soprattutto tre:

  • ricorso al narratore inaffidabile;
  • esasperazione del conflitto Uomo VS Natura;
  • sapiente uso degli archetipi (soprattutto nella definizione del suo villain e, se non hai ancora visto il film, ti avverto: questo è decisamente il momento di smettere di leggere l’articolo e correre ai ripari!).
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“Under the Bridge”: la mini-recensione della serie tv disponibile su Disney+


under the bridge - recensione miniserie

Titolo: Under the Bridge

Genere: Crime/Drammatico

Anno: 2024

Piattaforma: Disney+

Format: Miniserie

Cast: Riley Keough, Lily Gladstone, Vritika Gupta, Chloe Guidry, Izzi G., Javon Walton.


Di cosa si tratta:

“Under the Bridge” è una miniserie in 8 episodi, liberamente ispirata al brutale omicidio della quattordicenne Reena Virk.

L’omonimo libro di Rebecca Godfrey (interpretata, nello show, dalla Riley Keough di “Daisy Jones & the Six”) rappresenta il punto di riferimento di tutta la trama. In realtà, la serie prevede l’inclusione di personaggi, situazioni e colpi di scena che non hanno nulla a che fare con quanto avvenuto nella vita reale.

La storia è ambientata nel 1997. La scrittrice Rebecca torna nella sua cittadina natale, nel pieno della Colombia Britannica canadese, per scrivere un libro ispirato a una traumatica vicenda del suo passato.

Ma quando nel fiume si materializza il cadavere di Reena, una problematica ragazzina locale, la donna si lascia risucchiare dalle indagini ed entra in contatto con una società degradata e corrotta, piagata da una lunga tradizione di violenza, droga, indifferenza e delinquenza minorile.

Nel frattempo, la poliziotta Cam Bentland (Lily Gladstone) fa del suo meglio per assicurarsi che le indagini vengono condotte nella maniera più regolare e onesta possibile. Ma Reena era figlia di immigrati indiani, testimoni di Geova e tutt’altro che ben inseriti all’interno della comunità locale.

E la triste realtà è che nessuno sembra particolarmente interessato ad assicurare i suoi assassini alla giustizia…


“Under the Bridge”: la recensione

Non è una buona idea guardare “Under the Bridge” per l’elemento crime.

Non fraintendermi: c’è sicuramente qualcosa di ipnotico in questa serie. L’ho apprezzata moltissimo; a partire dalle (intensissime) interpretazioni delle due attrici protagoniste, che hanno una chimica magnetica e meritano tutte le lodi ricevute dalle critica e anche di più. Soprattutto Lily Gladstone che, con “Killers of the Flowers Moon” e “Fancy Dance“, in realtà aveva già rivelato al mondo le sue doti artistiche straordinarie.

Ma “Under the Bridge” si fa notare soprattutto per la forza delle sue tematiche, che ti colpiscono come il proverbiale pugno nello stomaco. Scrive Variety, in maniera decisamente eloquente: «La serie ci ricorda l’angoscia che provano gli adolescenti quando vengono respinti, specialmente le ragazze – e come questo sentimento possa trasformarsi, poi, fino a diventare qualcosa di grottesco. Senza una giusta guida o un orecchio pronto ad ascoltare, il tormento che (i ragazzi) finiscono per infliggersi l’un l’altro sembra, in molti modi, inevitabile.»

Ed è proprio così.

La cosa che colpisce di più, guardando “Under the Bridge”, non ha nulla a che fare con parole come “suspense” o “mistero”. Non vai avanti con gli episodi della serie perché non hai la più pallida idea di cosa sia successo o di chi abbia potuto fare del male a Reena. Le risposte a queste domande sono proprio lì, abbastanza chiare ed evidenti sotto gli occhi di tutti.

No, quello che ti si imprime nella memoria, sopra ogni altra cosa, è il ritratto lacerante di questi ragazzini abbandonati a se stessi, totalmente alla sbaraglio; costretti a crescersi praticamente da soli, facendo affidamento soltanto sulle regole del branco e l’uno sull’altro.


Un mondo senza adulti

Sembra una distopia, lo scenario da incubo entro cui si si svolgono gli eventi narrati in “Under the Bridge”. Un quadro in cui l’incapacità degli adulti di relazionarsi con i ragazzi sotto la loro custodia, alla fine, miete molte più vittime di un’edizione speciale degli Hunger Games. Uno squallore che ti riempie di tristezza di orrore; tant’è che, nonostante l’assenza di scene dal taglio esplicito, ammetto di aver trovato gli ultimi episodi di “Under the Bridge” emotivamente difficili da affrontare.

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“Extraordinary”: 5 cose che uno scrittore di libri new adult può imparare guardando la prima stagione


extraordinary - prima stagione - banner

La prima stagione di “Extraordinary” è stata la mia serie tv-rivelazione di gennaio.

A mio avviso, infatti, l’incredibile qualità della sceneggiatura – fresca, graffiante, irriverente… totalmente fuori di testa! – basta e avanza a compensare tutti i suoi (piccoli) difetti a livello tecnico e recitativo.

La trama dello show distribuito su Disney+ verte intorno alle tragicomiche disavventure quotidiane di Jen (Máiréad Tyers), uno dei pochi esseri umani privi di superpoteri in un mondo in cui persino il postino, o la tua amichevole fornaia di quartiere, avrebbe le carte in regola per presentare domanda d’assunzione presso il locale team degli Avengers.

Come saprai, non è la prima volta che la Disney decide di affrontare il tema supereroistico dal punto di vista dell’”escluso” (coff coff… “Encanto”… si schiarisce la voce…).

Eppure, dammi retta…

Sulla piattaforma di Topolino, non hai mai visto nulla di remotamente simile a “Extraordinary”! Un coming-of-age arguto e dissacrante, sulla scia di folli show televisivi come “Fleabag” o “The Flight Attendant”.

E se sei uno scrittore alle prime armi…

Assicurati di guardare la serie tv creata da Erin Moran almeno due volte, e in lingua originale. Da uno show come questo, fidati di me, c’è sempre e solo da imparare…


1. Vedi alla voce “drama queen”: ovvero, come scrivere un personaggio femminile forte, ma totalmente fuori controllo

Come dicevo, ritengo la sceneggiatura di “Extraordinary” estremamente brillante; a partire dal modo in cui sceglie di caratterizzare i suoi personaggi e, in modo particolare, la sua protagonista, Jen.

Un’antieroina disastrosa, anche a voler arrotondare la stima per difetto. Un autentico trainwreck, un riepilogo ambulante di contraddizioni, difetti e nevrosi tipici dell’età contemporanea.

All’inizio di questa prima stagione, Jen ha un carattere orrendo, un modo di fare destinato a ispirare nello spettatore tanto imbarazzo e fastidio, quanta ineluttabile empatia.

Per non parlare della sua marcata inclinazione all’autolesionismo e allo zerbinaggio compulsivo, o della sua all’incredibile capacità di stringere legami inutilmente complicati con chiunque le capiti a tiro.

Certo: ha grinta da vendere, Jen, e un singolare, goliardico spirito dell’umorismo metropolitano.  E poi, vuole davvero bene ai suoi amici, anche se non sempre è in grado di dimostrarlo.

Ma Jen è anche un’imbecille patentata, piena di complessi e di paure infantili che le rendono la vita un inferno. Cose che la spaventano e che la spingono ad agire d’impulso, commettendo gli sbagli più catastrofici che tu possa immaginare.

Insomma, per farla breve: Jen – per quanto a tratti possa risultare ridicola, antipatica, egocentrica, perfino odiosa – è un essere umano a tutto tondo, l’incarnazione stessa del concetto di ANTI-Mary-Sue.

Di più: è una donna dei giorni nostri, una sorta di “specchio” deformante in grado di restituirci un’’immagine ingigantita, ma perfetta, di tutti i nostri più grandi difetti.

Lontana anni luce da ogni stereotipo di genere, insomma.

E, perciò, totalmente irresistibile.


2. Come porre le basi per un solido arco trasformativo del personaggio

Ricordi quando abbiamo parlato dei prerequisiti necessari allo sviluppo di un buon arco trasformativo del personaggio?

Da questo punto di vista, la protagonista di “Extraordinary” non si fa mancare assolutamente nulla.

Jen, infatti, può contare su:

  • Una persistente Bugia che l’affligge sin dai tempi dell’adolescenza (la certezza strisciante di valere poco e niente, a causa della sua mancanza di superpoteri);
  • Una Ferita Emotiva contenuta nel suo background (la spiccata e implacabile preferenza dimostrata da sua madre nei confronti di sua sorella minore, Andy);
  • Un Oggetto del Desiderio superficiale, in grado di alimentare e “mandare avanti” la trama di questa prima stagione (tentare in ogni modo di sbloccare i suoi poteri latenti. Jen, infatti, è convinta che trasformarsi in un super-donna le permetterà di raddrizzare il corso della sua vita);
  •  Una Verità capace di ribaltare la Bugia (che uno abbia la superforza o la capacità di riavvolgere il tempo, o nessuna dote speciale in assoluto, la sostanza non cambia: la vita di ognuno di noi è una specie di farsa grottesca, pronta a farci ridere o piangere a seconda della prospettiva. Imparare a perdonare e a voler bene – agli altri, ma prima di tutto a noi stessi – è l’unico modo per cavarsela).

Mi segui?

Per passare dalla Bugia alla Verità, Jen dovrà compiere innumerevoli passi falsi e subire penose batoste.

Ma sarà proprio la sua capacità di rialzarsi dopo ogni sconfitta, in ultima analisi, a rendercela così cara e vicina (per approfondire l’argomento, ti rimando all’articolo “Come scrivere un protagonista indimenticabile: dalla “ferita emotiva” alla scoperta della propria verità“).

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“Omicidio nel West End”: 5 cose che uno scrittore di gialli può imparare guardando il film di Tom George


omicidio nel west end - banner film

Omicidio nel West End” (“See How They Run”, 2022) è approdato su Disney+ da poco, per la gioia di ogni fan del giallo in generale, e delle pièce di Agatha Christie in particolare.

Se ti diletti nell’arte della scrittura di murder mistery e non l’hai ancora visto, ti consiglio caldamente di rimediare.

Difficile considerare il film un capolavoro della settima arte, intendiamoci. Ma la sceneggiatura è senz’altro in grado di vantare un paio di momenti brillanti e una serie di colpi di scena esilaranti. Non credo proprio che avrai motivo di restare deluso, o rimpiangere il tempo speso per la visione.

Anche perché – ormai dovremmo saperlo bene – è sempre possibile imparare ALMENO cinque preziose lezioni di storytelling da qualsiasi libro letto, da ogni film o serie tv che vediamo.

Che cosa ne pensi, allora? Sei pronto a scoprire tutto ciò “Omicidio nel West End” potrebbe insegnarci?


1. Il sottogenere del “buddy cop” resta, oggi come in passato, un’ottima ricetta per il successo

Gran parte dell’empatia che lo spettatore di “Omicidio nel West End” arriva a provare nei confronti dei personaggi, passa attraverso il legame che comincia pian piano a svilupparsi fra i membri della «strana coppia» di investigatori interpretati da Sam Rockwell e Saoirse Ronan.

Due buffi personaggi (ma anche tragici, a loro modo…), che rappresentano una serie di valori e atteggiamenti completamente agli antipodi: lui cinico, svogliato, sbevazzone e vagamente imbolsito; lei zelante, ottimista, goffa e fin troppo pronta a “scattare” (soprattutto verso un sacco di conclusioni improbabili).

Le interazioni fra questi due personaggi, così riconoscibili e “familiari” per il grande pubblico (eppure, al tempo stesso, così rassicuranti, così piacevoli, così umani….) permettono l’inserimento di un gran numero di siparietti comici.

Contemporaneamente, però, aprono anche la strada per una serie di dialoghi che ci permettono di sbirciare nella sfera privata dei due detective e di intuire la profonda vulnerabilità (e l’inesprimibile malinconia) che, in fondo, incarna un po’ l’essenza di entrambi.

Aumentando, di fatto, le probabilità di riuscire a innescare un’autentica connessione emotiva fra il pubblico e l’opera.

Dopotutto, c’è un motivo, se quello del “buddy cop” è sempre stato uno dei sottogeneri più popolari e frequentati.

Stiamo parlando di un “modello” che affonda le radici nel trope universale delle personalità opposte che si attraggono (anche solo in senso amicale). Uno strumento potentissimo, a cui non dovresti avere paura di ricorrere, nel caso in cui la natura specifica dell’intreccio a cui stai lavorando ne preveda l’occasione.

Capisci cosa intendo dire, vero?

Prova a pensare ai migliori film “buddy cop” che tu abbia mai visto: “Point Break”, “Bady Boys”, “Corpi da Reato”, Zootropolis”, “Rush Hour”, “Hot Fuzz”…

Prova a farci caso: di tutti questi titoli, quali sono gli elementi che ti sono rimasti nel cuore? I minuziosi dettagli dell’intreccio, magari?

Oppure l’eccentrico, spassoso, irresistibile rapporto a base di amore fraterno, battibecchi e rivalità che teneva insieme i due protagonisti?

Certo, esistono anche buddy cop terrificanti!

Day Shift”, il mediocre urban fantasy di Netflix con Jamie Foxx e Dave Franco, ne rappresenta una delle prove più recenti.

Ma ti assicuro che il problema, in quel caso, risiede soltanto nella povertà di esecuzione.

La ricetta, dal canto suo, resta perfettamente valida.


2. Sfondare la quarta parete va bene… se sai come farlo!

In almeno un’occasione, un personaggio di “Omicidio nel West End” si rivolge direttamente al pubblico, infrangendo quella che, in gergo cinematografico, prende spesso il nome di “quarta parete”.

Il suo modo di fare, così giocoso e cospiratorio, risulta sicuramente molto accattivante. Rappresenta anche, peraltro, un richiamo diretto al finale dell’opera teatrale “Trappola per Topi” di Agatha Christie.

Si tratta di un effetto piuttosto simpatico ed efficace, nessun dubbio al riguardo. Ti avverto, però: cercare di sfondare la quarta parete può trasformarsi in un’arma a doppio taglio nel giro di un microsecondo.

Narratori più esperti di me e di te ci sono cascati, e corre voce che l’eco del tonfo che hanno fatto echeggi ancora nell’urlo del vento, nel corso delle più nere notti d’inverno.

Perciò,  se sei un autore alle primissime armi, ti sconsiglio vivamente di tuffarti a testa bassa in questa direzione: anziché raggiungere l’effetto sperato, potresti asfissiare la sospensione dell’incredulità del tuo lettore con tutta l’allegra incoscienza di uno sterminatore di topi che fischietta allontanandosi dalla scena del crimine.


3. Come ti uso (e perculo) la tecnica del foreshadowning

Più avanti, dedicheremo senz’altro un articolo più approfondito all’uso del foreshadowing, un meccanismo narrativo che permette all’autore di suscitare un elettrizzante (quanto inconscio, nella maggior parte dei casi…) senso di anticipazione.

Per adesso, ti esorto semplicemente ad analizzare il modo in cui la sceneggiatura di “Omicidio nel West End” riesce a prenderci tutti per il naso, semplicemente ricorrendo a questa tecnica… nel modo più sfacciato e provocatorio possibile!

Mi sto riferendo, ovviamente, alla scena dello storyboard escogitato dallo sgradevole regista Köpernick.

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“Pinocchio”: la recensione del film di Robert Zemeckis


pinocchio 2022 recensione - disney+

La critica sta distruggendo il “Pinocchio” di Robert Zemeckis, e devo ammettere che la cosa un po’ mi dispiace.

Scommetto che sarò la classica voce fuori dal coro, ma la verità è che ho trovato il film di Disney+ abbastanza simpatico e piacevole.

Certo, sotto certi aspetti, questo nuovo “Pinocchio” riesce tranquillamente a qualificarsi per il titolo di “bizzarro”.

Lo stanno ripetendo tutti e, sotto sotto, sento di poterlo confermare: c’è sicuramente qualcosa di vero in questa affermazione.

Il punto è che alla Disney, ultimamente, piace sperimentare. Soprattutto quando si tratta di reinventare qualcuno dei suoi franchise (o classici) più famosi.

È successo con “Lightyear” (altro clamoroso flop risalente a una manciata di mesi fa…), è capitato di nuovo in questo caso. Probabilmente perché non è facile creare qualcosa di nuovo, quando una vecchia favola di Collodi è la tua unica risorsa e non esiste alcuna ricetta collaudata.

A confermare i timori (e le perplessità) del regista, basterebbero forse già i primi venti minuti di “Pinocchio”, un bizzarro “prologo” interamente affidato alle doti recitative di Hanks. Una piccola (e incomprensibile) deviazione dalla linea narrativa principale, che confonde lo spettatore e gli impedisce di riconoscere immediatamente la “forma” della storia a cui sta per assistere.

La buona notizia?

Il risultato delle fatiche di Zemeckis, secondo me, potrà anche essere un film che non funziona dalla prima all’ultima scena, ma riesce comunque a intrattenere e a intenerire il lettore, proponendosi come una gradevole alternativa alla storia originale.

Probabilmente non si tratta di un adattamento all’altezza del capolavoro d’animazione targato 1940.

Tuttavia, per come la vedo io, un film andrebbe giudicato per quello che è. Non in elazione a questo o quell’altro grande mostro sacro del passato, o di quanto a lungo si presuppone che possa durare il suo lascito.

E ti confermo che “Pinocchio” (anno 2022) è un film che qualsiasi ragazzino dei giorni nostri guarderà con entusiasmo.


La trama

L’abile artigiano Geppetto (Tom Hanks) trascorre i suoi giorni nella pacifica solitudine della sua bottega. I suoi unici compagni sono un vispo gattino nero, Figaro, e un pesce rosso dalle ciglia lunghe di nome Cleo.

Geppetto, non più giovanissimo, avverte acutamente la mancanza del bambino che ha perso in tenera età. Per questo, un bel giorno, l’uomo decide di costruire un burattino di legno dalle sembianze vagamente simili a quelle di suo figlio.

Quella notte, prima di coricarsi, Geppetto avvista una stella cadente nel cielo ed esprime un desiderio.

La Fata Turchina (Cynthia Erivo), commossa dal buon cuore del vecchio, decide quindi di infondere nel burattino di nome Pinocchio (doppiato, in lingua originale, dal piccolo Benjamin Evan Ainsworth della miniserie tv “The Hunting of Bly Manor”) una preziosa scintilla di vita…


“Pinocchio”: la recensione

Fra le cose che ho apprezzato del film di Zemeckis, la principale ha probabilmente a che fare con la caratterizzazione del protagonista: malgrado i suoi errori e difetti, infatti, questo Pinocchio è un personaggio infinitamente meno ingenuo e irritante della sua controparte animata.

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“Lightyear”: 5 cose che uno scrittore può imparare guardando il film Disney/Pixar


lightyear - banner - pixar

Un bravo narratore sa che, dalla Pixar, c’è sempre qualcosa da imparare.

Ebbene sì: perfino quando il loro ultimo film si rivela un clamoroso flop commerciale!

Dopotutto, pochissime case di produzione cinematografiche sono state in grado di raggiungere, così velocemente, degli standard qualitativi generali così elevati.

Lightyear” è un film che ho trovato…interessante, almeno dal punto di vista della costruzione del protagonista e delle (intrepide) scelte narrative portate avanti dalla trama.

Una pellicola tutt’altro che perfetta, e sicuramente non all’altezza di capolavori come “Inside Out”, “Up” o “Soul”… ma per lo più brillante, anche se solo a tratti, e deliziosamente audace nella sua natura di “ibrido” cinematografico semi-sperimentale.

Ma quali preziose lezioni potrebbe imparare, uno scrittore, da una minuziosa analisi del plot e dei personaggi di “Lightyear”?

Andiamo a scoprirlo insieme! 😀


Spoiler alert!

1. Mai sottovalutare il potere del deuteragonista!

Sai che cos’è un deuteragonista?

La parola deriva dal greco: nel gergo teatrale, infatti, il termine stava a indicare “il secondo attore”.

Un deuteragonista è esattamente questo. Per citare TVTrope:

«Si tratta della seconda persona a cui ruota attorno uno show [o un romanzo, o un film…], un personaggio le cui azioni guidano la trama tanto quelle del protagoniste.»

Se ci fai caso, in “Toy Story”, Buzz non è l’eroe principale del film: quel ruolo spetta a Woody!

Ma se c’è una cosa che l’esistenza stessa del film “Lightyear” è in grado di dimostrare, è che un deuteragonista racchiude sempre in sé un potenziale narrativo tale da rivaleggiare con quello del protagonista.

E, in alcuni casi, addirittura quello di conquistarsi il diritto a una propria rocambolesca e toccante origin story!

Altri popolari esempi di deuteragonista che, all’occorrenza, si sono rivelati tranquillamente in grado di rubare la scena al protagonista?

  • Skye nella serie tv “Agents of S.H.I.E.L.D.”.
  • Willy Wonka nel film “La Fabbrica di Cioccolato”.
  • Sarah Lance nella prima stagione dello show “Legends of Tomorrow”.
  • Kelsier nel romanzo “Mistborn: L’Ultimo Impero”.

Cosa ci suggerisce tutto questo?

Se deciderai di inserire nel tuo romanzo un “secondo uomo” o “una seconda donna”, che si tratti di un aiutante, di un villain o di un love interest, dovrai stare molto attento a non sottovalutare il suo ruolo.

Se non fosse stato per Sheldon Cooper, credi davvero che la sitcom “The Big Bang Theory” sarebbe riuscita a diventare un fenomeno popolare? 😉

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“Prey”: la recensione del film di Dan Trachtenberg su Disney+


prey recensione - film disney +

Con un paio di giorni di ritardo sulla tabella di marcia, ecco arrivare la recensione di “Prey”, il nuovo film della saga “Predator” targato Disney+.

Devo ammettere che la pellicola di Dan Trachtenberg – già regista del sorprendente “10 Cloverfield Lane” – si è rivelata una piacevolissima sorpresa.

Fra i numerosi punti di forza, in relazione allo sviluppo della movimentatissima trama, si distinguono a mio avviso soprattutto il “restyling” di uno dei villain più classici della storia del cinema, un’ambientazione mozzafiato, un ritmo che non perdona e l’introduzione di una nuova, grintosa eroina


La trama

Naru (Amber Midthunder) è una giovane guerriera della Nazione Comanche.

Suo fratello è il più esperto e rispettato cacciatore del villaggio. Il ragazzo è sinceramente affezionato alla sorella, ma dubita seriamente che Naru possa tenere il passo e dimostrarsi un’utile risorsa per la sua cerchia di cacciatori.

In effetti Naru, per quanto sveglia e coraggiosa, sembrerebbe quasi più adatta al ruolo di guaritrice

Eppure Naru non ha alcuna intenzione di arrendersi. Il suo obiettivo? Oltrepassare i propri limiti e assumere le redini del suo destino.

E così, non appena comincia a sospettare la presenza di un nuovo predatore, un feroce assassino che si aggira macellando animali nel bosco, la giovane donna decide di mettersi in marcia per provare – a se stessa e agli altri – il proprio valore come donna e come cacciatrice.


“Prey”: la recensione

Secondo Dan Trachtenberg, i vecchi film della serie “Predator” non sono mai riusciti ad azzeccare il modo di muoversi e porsi dell’alieno invasore.

«La cosa che volevo davvero fare», riporta Everyeye, «era, da un lato, andare incontro alla famosa armatura di Predator – che adoro – ma, dall’altro, allontanarmi da ciò che era stato fatto prima, perché mi ha sempre dato l’impressione di una tuta indossata da un uomo normale».

In effetti, stavolta il mostro di “Prey” assomiglia molto di più alla creatura selvaggia e brutale dei nostri incubi. Uno scaltro predatore, abituato a trovarsi in cima alla catena alimentare e sempre pronto a sbarazzarsi della competizione.

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“Ms Marvel” (recensione): comunità, identità e buoni sentimenti nella nuova serie Disney+


Ms Marvel recensione - banner - serie tv

La mia recensione di “Ms Marvel” non può che iniziare con un piccolo aneddoto di natura personale.

Devi sapere che Kamala Khan è il personaggio che mi ha introdotto alla lettura dei Marvel Comics. Da questo punto di vista, quindi, la serie di G. Willow Wilson è stata importantissima per me!

Con le sue tonalità frizzanti e le sue coloratissime atmosfere urbane, le avventure di Kamala sono riuscite a conquistarmi fin dai primissimi numeri, trasmettendomi peraltro la motivazione e il “coraggio” necessario ad addentrarmi sempre più nel caotico labirinto dei fumetti Marvel!

Perciò, non faticherai a comprendere le altissime aspettative che nutrivo nei confronti di questo adattamento televisivo targato Disney+.

Una fiducia che è stata, in gran parte, ripagata dall’effervescente interpretazione della vulcanica Iman Vellani, nonché da una gloriosa, irresistibile, caleidoscopica messa in scena


La trama

Kamala è un’adolescente del New Jersey che ama i supereroi oltre ogni immaginazione.

Il suo idolo assoluto è Carol Davenrs, alias Captain Marvel: l’Avenger più forte del pianeta, nonché “ultima arrivata” all’interno della squadra dei difensori della Terra.

I genitori di Kamala, una coppia di immigrati pakistani, non vedono di buon occhio l’adorazione della figlia per questo mondo di costumi, lustrini, superpoteri e imprese spericolate.

Preferirebbero di gran lunga che Kamala si concentrasse sulle cose “importanti”: la scuola, l’imminente matrimonio di suo fratello maggiore, la comunità. Tutto ciò che, in qualità di genitori , si sentono in grado di comprendere e condividere con Kamala.

Perciò, in occasione dell’attesissimo evento AvengerCon, i due impongono alla ragazza di restare a casa.

Ma Kamala ha lavorato troppo sul suo adorato cosplay di Captain Marvel, per accettare un “no” come risposta: in compagnia dell’inseparabile amico Bruno (Matt Lintz), escogita quindi un piano “geniale” per sgattaiolare via in segreto.

A partire da questa decisione, una serie di eventi imprevedibili le porterà in dono un nuovo superpotere, un’esplosione di rivelazioni sulla storia della sua famiglia, e una pericolosa macchinazione ultraterrena da sventare…


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