“Come scrivere un dialogo”: ecco una questione con cui qualsiasi autore, prima o poi, verrà chiamato a confrontarsi.
Dopotutto, quella di scrivere dialoghi, nel contesto di un romanzo o in un racconto, è un’arte estremamente delicata.
Tanto per cominciare, bisogna sempre tenere presenti le regole dello “show, don’t tell”. E ricordarsi che uno dei primi obiettivi di un buon dialogo consiste nel cercare di «svelare un personaggio attraverso la sua voce.»
Ho preso in prestito quest’ultima citazione da Elizabeth George, una delle più popolari autrici americane di romanzi gialli a tema poliziesco.
In realtà, una buona parte dei suggerimenti in cui ti imbatterai all’interno di questo articolo è stata tratta proprio dall’incisivo manuale “L’Arte di Costruire un Romanzo”, pubblicato dalla George nel corso del 2020.
Una lettura molto utile e interessante, che ti consiglio senz’altro di recuperare. Peraltro, una rapida ricerca online ti confermerà la disponibilità del volume anche in italiano, in una comoda edizione economica proposta da Tea.
Gli obiettivi di un buon dialogo
«Le parole pronunciate dai personaggi all’interno dei dialoghi servono a rivelare, ammettere, incitare, accusare, mentire, informare, manipolare, sviare, suggerire, ordinare, incoraggiare e così via, e rappresentano anche un modo efficiente per far proseguire la storia.»
L’Arte di Costruire un Romanzo – Elizabeth George
Secondo Elizabeth George, in un romanzo una scena di dialogo ha il compito fondamentale di assolvere ad almeno una di queste funzioni:
- Illustrare al lettore la natura della persona che parla (carattere, intenzioni, educazione, background, sistema culturale di appartenenza ecc.), attraverso il suo peculiare modo di esprimersi;
- Aggiungere uno strato di significati sottintesi a quanto già sappiamo, sollecitando interrogativi e curiosità nella mente del lettore;
- Permettere alla storia di avanzare.
Un dialogo che non riesce a rispondere a nessuno di questi requisiti, deve essere eliminato dalla stesura definitiva del tuo romanzo senz’ombra di esitazione.
Perché non servirebbe A NIENTE.
A parte, forse, a tediare il lettore, incoraggiandolo a mettere da parte il tuo libro senza pensarci due volte.
Queste dichiarazioni della George si trascinano dietro un evidente (quanto fondamentale) corollario:
per scrivere un buon romanzo, bisogna, prima di tutto, imparare a differenziare il modo di parlare dei vari personaggi.
Prova a fare un giretto in stazione, e tieni le orecchie bene aperte.
Che cosa scoprirai? Che non esistono due persone inclini a esprimersi nello stesso e identico modo. Perché le varie scelte di linguaggio, l’accento, l’organizzazione della sintassi, le espressioni gergali ricorrenti, l’inflessione e, in alcuni casi, perfino il modo di accompagnare le parole gesticolando, in realtà sono in grado di riflettere la personalità e l’identità socio-culturale del parlante sopra ogni cosa.
Mi segui?
Sono tratti caratterizzanti.
E parte integrante del tuo processo di creazione di un personaggio: protagonista, villain, o altro che sia.
Come scrivere un dialogo: impara a evitare la “Sindrome delle Teste Parlanti”
Naturalmente, non è possibile scrivere un buon dialogo ricorrendo alla sola scansione diretta.
La forma e il contenuto delle singole battute andranno sempre curati con meticolosa attenzione, si capisce. Peraltro, stando bene attenti a evitare gli infodump, soprattutto nell’odiosa forma del meccanismo “As You Know, Bob“.
Ma altrettanta importanza rivestono (o dovrebbero rivestire, in un mondo ideale…) le azioni destinate ad accompagnare le suddette battute.
Per illustrare meglio il concetto, anni fa Elizabeth George ha coniato, insieme ai suoi studenti di un corso di scrittura creativa, il termine THAD: un acronimo che sta per “Talking Head Avoidance Device” (Matteo Camporesi traduce l’espressione, giustamente, in maniera pressoché letterale: “Dispositivo Per Evitare le Teste Parlanti”).
A che cosa serve il “THAD”?
Ancora una volta, cediamo la parola direttamente alla George:
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