“Omicidio nel West End” (“See How They Run”, 2022) è approdato su Disney+ da poco, per la gioia di ogni fan del giallo in generale, e delle pièce di Agatha Christie in particolare.
Se ti diletti nell’arte della scrittura di murder mistery e non l’hai ancora visto, ti consiglio caldamente di rimediare.
Difficile considerare il film un capolavoro della settima arte, intendiamoci. Ma la sceneggiatura è senz’altro in grado di vantare un paio di momenti brillanti e una serie di colpi di scena esilaranti. Non credo proprio che avrai motivo di restare deluso, o rimpiangere il tempo speso per la visione.
Anche perché – ormai dovremmo saperlo bene – è sempre possibile imparare ALMENO cinque preziose lezioni di storytelling da qualsiasi libro letto, da ogni film o serie tv che vediamo.
Che cosa ne pensi, allora? Sei pronto a scoprire tutto ciò “Omicidio nel West End” potrebbe insegnarci?
1. Il sottogenere del “buddy cop” resta, oggi come in passato, un’ottima ricetta per il successo
Gran parte dell’empatia che lo spettatore di “Omicidio nel West End” arriva a provare nei confronti dei personaggi, passa attraverso il legame che comincia pian piano a svilupparsi fra i membri della «strana coppia» di investigatori interpretati da Sam Rockwell e Saoirse Ronan.
Due buffi personaggi (ma anche tragici, a loro modo…), che rappresentano una serie di valori e atteggiamenti completamente agli antipodi: lui cinico, svogliato, sbevazzone e vagamente imbolsito; lei zelante, ottimista, goffa e fin troppo pronta a “scattare” (soprattutto verso un sacco di conclusioni improbabili).
Le interazioni fra questi due personaggi, così riconoscibili e “familiari” per il grande pubblico (eppure, al tempo stesso, così rassicuranti, così piacevoli, così umani….) permettono l’inserimento di un gran numero di siparietti comici.
Contemporaneamente, però, aprono anche la strada per una serie di dialoghi che ci permettono di sbirciare nella sfera privata dei due detective e di intuire la profonda vulnerabilità (e l’inesprimibile malinconia) che, in fondo, incarna un po’ l’essenza di entrambi.
Aumentando, di fatto, le probabilità di riuscire a innescare un’autentica connessione emotiva fra il pubblico e l’opera.
Dopotutto, c’è un motivo, se quello del “buddy cop” è sempre stato uno dei sottogeneri più popolari e frequentati.
Stiamo parlando di un “modello” che affonda le radici nel trope universale delle personalità opposte che si attraggono (anche solo in senso amicale). Uno strumento potentissimo, a cui non dovresti avere paura di ricorrere, nel caso in cui la natura specifica dell’intreccio a cui stai lavorando ne preveda l’occasione.
Capisci cosa intendo dire, vero?
Prova a pensare ai migliori film “buddy cop” che tu abbia mai visto: “Point Break”, “Bady Boys”, “Corpi da Reato”, Zootropolis”, “Rush Hour”, “Hot Fuzz”…
Prova a farci caso: di tutti questi titoli, quali sono gli elementi che ti sono rimasti nel cuore? I minuziosi dettagli dell’intreccio, magari?
Oppure l’eccentrico, spassoso, irresistibile rapporto a base di amore fraterno, battibecchi e rivalità che teneva insieme i due protagonisti?
Certo, esistono anche buddy cop terrificanti!
“Day Shift”, il mediocre urban fantasy di Netflix con Jamie Foxx e Dave Franco, ne rappresenta una delle prove più recenti.
Ma ti assicuro che il problema, in quel caso, risiede soltanto nella povertà di esecuzione.
La ricetta, dal canto suo, resta perfettamente valida.
2. Sfondare la quarta parete va bene… se sai come farlo!
In almeno un’occasione, un personaggio di “Omicidio nel West End” si rivolge direttamente al pubblico, infrangendo quella che, in gergo cinematografico, prende spesso il nome di “quarta parete”.
Il suo modo di fare, così giocoso e cospiratorio, risulta sicuramente molto accattivante. Rappresenta anche, peraltro, un richiamo diretto al finale dell’opera teatrale “Trappola per Topi” di Agatha Christie.
Si tratta di un effetto piuttosto simpatico ed efficace, nessun dubbio al riguardo. Ti avverto, però: cercare di sfondare la quarta parete può trasformarsi in un’arma a doppio taglio nel giro di un microsecondo.
Narratori più esperti di me e di te ci sono cascati, e corre voce che l’eco del tonfo che hanno fatto echeggi ancora nell’urlo del vento, nel corso delle più nere notti d’inverno.
Perciò, se sei un autore alle primissime armi, ti sconsiglio vivamente di tuffarti a testa bassa in questa direzione: anziché raggiungere l’effetto sperato, potresti asfissiare la sospensione dell’incredulità del tuo lettore con tutta l’allegra incoscienza di uno sterminatore di topi che fischietta allontanandosi dalla scena del crimine.
3. Come ti uso (e perculo) la tecnica del foreshadowning
Più avanti, dedicheremo senz’altro un articolo più approfondito all’uso del foreshadowing, un meccanismo narrativo che permette all’autore di suscitare un elettrizzante (quanto inconscio, nella maggior parte dei casi…) senso di anticipazione.
Per adesso, ti esorto semplicemente ad analizzare il modo in cui la sceneggiatura di “Omicidio nel West End” riesce a prenderci tutti per il naso, semplicemente ricorrendo a questa tecnica… nel modo più sfacciato e provocatorio possibile!
Mi sto riferendo, ovviamente, alla scena dello storyboard escogitato dallo sgradevole regista Köpernick.
Ricordi il genere di (semi-demenziale) climax con cui il direttore artistico di “Trappola per Topi” prevedeva di concludere il suo adattamento? Non era forse inevitabile che l’ultimo atto di “Omicidio nel West End” si concludesse nello stesso modo?
Bè… quasi inevitabile.
Perché è proprio questo punto – proprio quando pensavamo di aver messo il gatto nel sacco – che la trama del nostro film si prepara a riservarci un altro paio di gustose e dissacranti sorprese…
3. Le regole del “whodunit” (come quelle di qualsiasi altro genere…) non sono negoziabili
Dalla sceneggiatura di “Omicidio nel West End”, si potrebbe trarre un compendio abbastanza esaustivo delle principali regole del giallo classico.
Qualche esempio?
- La persona più sgradevole nella stanza sarà la prima a morire.
- Un buon depistaggio è sempre opportuno.
- Nel contesto di un romanzo o di una sceneggiatura, il primo cadavere dovrà necessariamente saltare fuori entro pagina dieci (una regola d’oro che, fra l’altro, ci ricorda anche il nostro Paolo Roversi, nel suo manualetto introduttivo “Scrivere Gialli di Successo”).
Che cosa ci suggerisce tutto questo?
Il mistery è un genere altamente codificato, che può contare su una fanbase tanto vasta, quanto vivace e pronta a lasciarsi coinvolgere dai nostri intrecci.
L’unica condizione che il pubblico pone a un autore di storie mistery? Non provare a servire un’insalata greca a un raduno dell’Oktoberfest.
Non mi stancherò mai di ripeterlo: per farsi voler bene, bisogna prima di tutto imparare a riconoscere la forma di una buona storia, con tutte le sue convenzioni, i suoi trope e i suoi momenti “obbligatori”, e poi agire di conseguenza.
L’autore che sarà colto a barare, verrà lasciato a giocare da solo per il resto del pomeriggio.
5. Stuzzica le aspettative del pubblico, ma pensa fuori dalla scatola!
Una cosa è anticipare le aspettative di chi legge o guarda la tua opera, e lavorare alacremente per fomentare quel senso di gioiosa trepidazione.
Un’altra è limitarsi a dare in pasto al tuo pubblico il primo cliché da serie televisiva del primo pomeriggio.
Le persone che hanno amato “Omicidio nel West End”, hanno apprezzato i suoi colpi di scena spregiudicati, tanto quanto la sua capacità di ironizzare apertamente sulla propria natura.
Pensiamo alle primissime scene del film di Tom George.
Per citare TvTropes:
L’apertura narrata da Leo Köpernick induce a pensare che il personaggio si trovi all’interno di una storia che tratterà il dramma di adattare un noioso giallo inglese in un eccitante film di Hollywood. Leo non realizza, fino a quando non è troppo tardi, di trovarsi invece proprio in una di quelle storie gialle britanniche, e che le sue azioni adesso gli impongono fermamente il ruolo di prima vittima.
Inseguire la soluzione narrativa più originale, divertente e imprevedibile, pur continuando a rifiutarsi di trasgredire alle regole imprescindibili del proprio genere di riferimento… è questa, la principale sfida di un buon costruttore di storie.
L’unica via per il successo, nel contesto di un mercato sempre più affollato da noiosi titoli-clone e imbarazzanti pastiche pseudo-sperimentali senza capo né coda!
Hai già visto “Omicidio nel West End”?
Per un altro esempio di brillante (e anticonvenzionale) immersione nei meccanismi che regolano il cosiddetto “romanzo giallo à la Agatha Christie”, leggi anche “Le sette morti di Evelyn Hardcastle” di Stuart Turton.
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